Denaro e Bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità (seconda parte)

QUARTA SALA

Adesso addentriamoci più a fondo nel mestiere del banchiere fiorentino. A partire dal XII secolo nacquero, in molte città italiane ed europee, le prime corporazioni di arti e mestieri, che erano delle associazioni create per regolamentare e tutelare le attività degli appartenenti ad una stessa categoria professionale. I banchieri appartenevano, come abbiamo visto, all’Arte del Cambio. I cambiatori erano coloro che stavano dietro un banco (da qui i termini “banca” e “bancarotta” perché si usava spaccare il banco al banchiere insolvente), cambiando monete d’argento in monete d’oro e viceversa. I banchieri si arricchirono cambiando denaro sui mercati internazionali. E come facevano?

Con la lettera di cambio, uno strumento bancario con la duplice funzione di trasferimento di denaro e di strumento di credito; essa consente di movimentare denaro da un luogo all’altro in assenza di un trasferimento materiale di moneta, grazie solo a operazioni contabili. Per esempio, immaginate un mercante fiorentino che voglia acquistare zucchero, spezie e uva sultanina a Barcellona. Deve necessariamente inviare il denaro al suo fornitore che si trova appunto a Barcellona; gli si presenta però subito un primo e grandissimo problema: trasferire fisicamente i soldi da una città all’altra. Pensiamo infatti ai rischi e al gran dispendio di tempo che un viaggio del genere comportava a quell’epoca. E così si reca da un banchiere, che a Firenze lavoravano nel Mercato Nuovo, gli consegna il denaro e riceve una lettera di cambio: sarà quest’ultima che invierà al fornitore e sarà quest’ultimo che la porterà alla filiale spagnola della banca per riscuotere i soldi nella valuta locale. Nel caso la banca non abbia una filiale a Barcellona potrebbe appoggiarsi a quella di un istituto associato, magari in un’altra città. Un punto di forza dei fiorentini fu proprio la gran quantità di banche con filiali in vari centri italiani ed esteri. Per tutto questo meccanismo, naturalmente il gioco di squadra era fondamentale. La lettera di cambio divenne in breve anche il modo migliore per aggirare i divieti posti dalla Chiesa, attuando il rimborso del denaro prestato in un altro luogo e in altra valuta.

Lettera di cambio di Diamante e Altobianco degli Alberti a Francesco di Marco Datini e Luca del Sera, Bruges-Barcellona, 2 settembre 1398, Prato, Archivio di stato

Fisicamente la lettera di cambio si presenta con un formato ridotto ed un formulario essenziale. Su di essa sono specificati sempre la data di emissione e il numero dell’esemplare emesso, ribadito anche sulla “busta”, poiché la prassi prevedeva l’invio di più esemplari (fino a quattro), per garantire l’arrivo a destinazione di almeno uno di essi a causa della possibilità di smarrimento e dell’insicurezza delle vie di comunicazione. Solo l’esemplare giunto per primo a destinazione veniva validato.

In questa sala troviamo i “ferri del mestiere” del banchiere-mercante, per esempio i manuali come il “Libro di Mercatantie et usanze de paesi” della fine del ‘400. Questi testi ricchissimi di informazioni di ogni tipo costituiscono un genere letterario, denominato le «Pratiche di mercanzia», che si diffuse a partire dal Medioevo nelle metropoli italiane del commercio e in particolare a Firenze, Genova e Venezia. Erano compilati da mercanti come guide per scopi commerciali e vi venivano descritte le varie piazze commerciali europee e mediorientali; le loro condizioni economiche, come la moneta in corso e le altre valute accettate; le misure usate e il relativo valore; i prodotti disponibili e la loro qualità. Si presentavano come “volumetti”, di formato ridotto, adatti per essere portati con sé nei viaggi e utilizzati non solo dal mercante ma anche dal viaggiatore-turista per le migliaia di informazioni utili e pratiche.

Marinus van Reymerswaele “A Moneychangr and His Wife” (1538) olio su tavola 31×42 Madrid, Prado

Il dipinto raffigurante una famiglia di usurai di Marinus van Reymerswaele ci presenta proprio tutti gli strumenti che utilizzava il banchiere per l’esercizio del mestiere e che ritroviamo “dal vero” nella vetrina davanti. I due personaggi appaiono intenti a contare con avidità i denari sparsi sul tavolo in primo piano. Abbiamo già potuto osservare come quella della raffigurazione dei banchieri sia un genere d’arte che ebbe molto successo nella prima metà del ‘500 in area fiamminga anche per i suoi caratteri fortemente simbolici volti a dare precisi messaggi morali. Infatti qui vediamo un’attenzione particolare dell’artista nel rendere le mani dei due protagonisti: segnate dagli anni quelle dell’uomo, che si accinge a verificare il peso di una moneta sulla piccola bilancia, più candide, ma quasi rapaci, come degli artigli, quelle della moglie, che tiene il libro per la contabilità. Sullo scaffale alle loro spalle, vi sono splendidi particolari di ‘‘natura morta’’ nelle lettere, nei fogli e negli oggetti di uso quotidiano posti disordinatamente, mentre fortemente simbolica è la candela spenta, posta sulla destra ma posizionata non a caso tra i due coniugi, allusiva alla brevità della vita.

Come se li avessimo prelevati direttamente dal dipinto di Marinus, ci appaiono di fronte oggetti come le borse. Un accessorio di moda necessario dal XIV sino almeno alla metà del XVI secolo, poiché non si usavano ancora le tasche interne cucite agli abiti, le borse erano indossate particolarmente dagli uomini, diventando un elemento distintivo dei ceti di classe elevata. Straordinari gli esemplari del Bargello anche per la rarità con la quale questa tipologia di oggetti ci è pervenuta, sia perché trattandosi di manufatti di uso comune erano soggetti nel tempo a un forte deterioramento, sia perché, non essendo realizzati in materiale di pregio, non erano ritenuti degni di particolare attenzione o di essere preservati.

Scarsella di fattura francese, pelle e ferro. Museo del Bargello. Firenze.

Abbiamo la borsa in cuoio con tasche, ad uso del mercante e del viaggiatore, detta “scarsella” che serviva per portare i denari da dividere per tipologia nelle tasche. Al centro dell’anello metallico si apre una grande tasca, che ne contiene un’altra piccola, destinata a svolgere una funzione di maggiore sicurezza per oggetti più preziosi o addirittura reliquie che vi venivano custoditi. All’interno dell’anello metallico veniva fatta passare la cintura che assicurava la borsa al corpo del viaggiatore, o scorreva comunque un laccio adatto a tenerla appesa al collo. La critica ritiene che l’opera sia da ricondurre a una produzione franco-fiamminga del XVI secolo, anche in base ai riscontri di tipo figurativo rintracciabili nella pittura dell’epoca, come abbiamo visto per il caso di Marinus. Abbiamo poi le cosiddette “tasche da messaggero”, diffuse nel XV e XVI secolo, che si distinguono per la struttura rigida e rettangolare, perfettamente adatta a contenere documenti, lettere e carte, da portare attaccate alla cintura. Opera poi veramente eccezionale presente in mostra, è la bilancia per oro e pietre preziose e la sua cassettina di contenimento tutta dipinta finemente. E poi troviamo tutto il mondo di cassette e cassettine, scatole e scatoline per documenti, denari e oggetti preziosi con chiavi, lucchetti e sistemi di chiusura eccezionali. A Firenze nel tardo Medioevo questo tipo di contenitore era prodotto dai Chiavaioli o dai Fibbiai, un ramo dell’Arte dei Fabbri, con la collaborazione dei Cuoiai, che in ogni caso fornivano la materia prima per il rivestimento. Questi forzieri portatili erano prodotti solitamente in Francia, in particolare a Lione, in Spagna e Fiandre, o a Venezia.

Genere poi particolarmente affascinante è quello delle casseforti, che ebbero un notevole sviluppo soprattutto dal ‘500 per la scoperta di sistemi di serratura sempre più ingegnosi, come quello a “chiavistelli multipli”, un esempio straordianario del genere è quello del Museo Nazionale di Villa Guinigi di Lucca. Un’arte questa che si basa sull’inganno per evitare furti perché al centro della cassaforte troviamo una finta serratura, la vera si trova al centro del coperchio, celata da una piastrina di ferro mimetizzata che si alza premendo un bottone poco visibile e distante. Azionando la serratura, i chiavistelli, che bloccano in vari punti il coperchio ai bordi della cassa, si aprono. Il ruolo dei chiavistelli multipli non è tanto quello di complicare l’apertura del forziere, ma di rendere molto difficile lo scasso facendo perdere tempo prezioso al ladro.

Fortemente simboliche poi le chiavi e i lucchetti, venivano realizzate nelle forme più varie: tondi, a cuore, a triangolo, a blasone, a ovoli, a ghianda, globulari, circolari e di altri tipi. Naturalmente i lucchetti risultavano più facilmente apribili rispetto a meccanismi complessi e artificiosi. È per questa ragione che venivano utilizzati per proteggere cose necessarie ma non pregiate come il cibo o per escludere dalla vista oggetti di cui si voleva garantire la riservatezza, ma non si temeva il furto.

QUINTA SALA

Non era tutto rose e fiori la vita dei mercanti banchieri, c’era sì la possibilità di arricchirsi enormemente, ma il rischio era all’ordine del giorno, soprattutto quello derivato dai viaggi. In assenza di strade adatte ai trasporti pesanti, commerciare significava viaggiare essenzialmente per mare: si poteva incorrere in burrasche, pirati, angosciosi ritardi. Così, mentre le loro operazioni finanziarie sollevavano le critiche e talvolta la collera della gente, i rischi cui i banchieri-mercanti andavano incontro quando affidavano al mare le loro ricchezze, e in qualche occasione perfino la loro vita, li riscattavano nell’immaginario collettivo. Non rimaneva che pregare e «Nel nome di Dio e di bona ventura» era la supplica che campeggiava sui documenti di spedizione. Parallelamente si sviluppò la produzione di carte nautiche che aiutavano a orientarsi non solo i navigatori, ma anche i mercanti e i pellegrini, i cosiddetti Portolani, come questo di Venezia che descrivevano le coste con i porti e le loro caratteristiche (da qui il nome), nonché davano pratiche informazioni come la situazione politica delle città meta dei viaggi. Il navigatore con questo reticolo di riferimento del tutto empirico poteva orientarsi anche navigando di notte e nei tratti in mare aperto. Venezia, avendo un porto che commerciava con l’intero Mediterraneo e oltre, era uno dei centri più prolifici e importanti nella produzione di carte nautiche. Oltre alla carte nautiche e ai portolani, altri strumenti essenziali per il viaggiatore erano la bussola e il compasso. Per quanto riguarda il commercio fiorentino le mete principali erano Napoli, Roma, Venezia, Barcellona, Avignone, Ginevra, Lione, Parigi, Bruges e Londra. I maggiori prodotti di scambio erano, da sud verso nord, seta, spezie e allume (minerale essenziale come mordente e fissatore nella tintura di lana e seta), agrumi; da nord verso sud, lana grezza, lino, piombo, arazzi; c’erano poi coloranti preziosi come la cocciniglia, usata per tingere di rosso. La cocciniglia si ricava da degli insetti femmine della specie Dactylopius coccus dal liquido usato dall’animale come involucro per proteggersi dai predatori. È un colorante estremamente prezioso perché per produrne un chilogrammo di occorrono circa 100.000 insetti.

Dei  pericoli che i mercanti affrontavano durante i viaggi per mare ne parla il dipinto del Beato Angelico che tratta del miracolo del salvataggio di un veliero, si tratta della predella centrale del cosiddetto Polittico di Perugia, per la cappella di San Nicola in San Domenico ed oggi viene dai Musei Vaticani. Il racconto inizia con una tempesta, a destra, un veliero è in balia delle onde con la vela gonfiata dal vento e l’equipaggio, al quale non gli rimane che pregare e invoca San Nicola, patrono dei naviganti; il santo esaudisce le preghiere apparendo in un’aureola dorata sul cielo scuro. Nella parte centrale l’imbarcazione trova rifugio nel porto. Un’insieme di rocce divide la scena del pericolo corso sul mare dal riparo sicuro. A sinistra, infine, il santo vescovo Nicola discute con un messaggero e un mercante  della merce arrivata a destinazione grazie all’intervento miracoloso. La ricchezza del dipinto si vede in ogni suo parte: dai personaggi, tutti vestiti elegantemente con tessuti ricamati d’oro, fino al particolare dei chicchi di grano che sembrano pagliuzze d’oro. Sicuramente il committente, che purtroppo ci è sconosciuto, doveva essere particolarmente ricco e di gusto raffinato anche nella scelta dell’Angelico, uno degli altari più prestigiosi del primo Quattrocento.

Un oggetto che portava a sbizzarrirsi in decorazioni anche di grande ricchezza è il forziere nuziale che permette all’artista di sbizzarrirsi anche in ricche cornici di pastiglia dorata. Il forziere del Museo Stibbert racconta, in tre formelle, l’inizio della vicenda del mercante Torello e Saladino, narrata da Boccaccio nel Decameron. Torello di Strà da Pavia ospitò il Saladino quando viaggiò in incognito in veste di mercante con il suo seguito, identificabile nell’opera per la lunga sciabola ricurva delle terre islamiche e per la ricca veste decorata da una iscrizione cufica sul bordo inferiore, anche se porta il  copricapo da mercante come Torello. Nel terzo episodio, anche Torello parte per la Crociata e lascia sola la moglie, con l’impegno di attenderlo per un anno, un mese e un giorno, trascorsi i quali sarà libera di risposarsi. Il seguito della storia, rappresentato nel cassone un tempo in coppia con questo come era previsto nell’uso matrimoniale del tempo, racconta come messer Torello, fatto prigioniero dai saracini, è liberato dallo stesso Saladino. Quest’ultimo infatti, dopo averlo riconosciuto, lo aiuta, con artifici magici, a tornare al più presto a Pavia, per impedire che sua moglie, non sapendo più nulla di lui e spinta dai parenti, si risposi. La novella celebra il valore della fedeltà coniugale che supera ogni avversità, essenziale nell’etica del matrimonio, ma esalta anche la vitalità del ruolo mercantile, che porta gli uomini a viaggiare per terre sconosciute e ad affrontare avversità di ogni genere, certi del sostegno reciproco, che supera anche le differenze di religione. La ricchezza che deriva dal mestiere del mercante si vede anche nelle vesti di Adalieta, moglie di Torello, la quale indossa la cotta, un abito lungo tipico della seconda metà del Trecento definito anche cipriana, adorno sul davanti e sulle maniche molto aderenti di piccoli bottoni (che erano sinonimo di ricchezza), arricchito ulterioramente da un bordo di ermellino.

Francesco Botticini “L’arcangelo Raffaele e Tobiolo con un giovane devoto”  (1485) circa tempera su tavola cm 156 x 89 Firenze, Soprintendenza Speciale per il Polo Museale

Tutte queste opere ci fanno entrare nella vita dei mercanti, come anche questa dipinta dal Botticini e rappresentante l’arcangelo Raffaele e Tobiolo (come veniva chiamato in Toscana il giovane Tobia della storia biblica) con un giovane devoto. La tavola era destinata alla devozione privata e racconta dello stato d’animo, dell’angoscia dei genitori che dovevano separarsi dai figli, perché già poco più che decenni i figli dei mercanti-banchieri dovevano intraprendere viaggi rischiosi, raggiungendo le filiali di Napoli, Bruges, Ginevra, Lione o Londra (e forse uno di questi luoghi è rappresentato in quel mare e quelle alte montagne che appaiono in lontananza). E allora questi potevano essere veramente degli addii (pensiamo senza il telefono per sentirsi, senza sapere cosa sarebbe successo, se mai ci si sarebbe rivisti). Come poter sopravvivere ad un’angoscia tale? Ci si raccomandava alla protezione di un autorevole intercessore per mezzo di un quadro devozionale, come una sorta di rito propiziatorio; il tema più adatto era proprio quello di Tobiolo, condotto sano e salvo da Raffaele attraverso paesi sconosciuti e pericolosi. Nel Libro biblico di Tobia l’angelo Raffaele (definito arcangelo solo nei testi apocrifi), venne invocato da Tobi, uomo giusto e povero, affinché accompagnasse suo figlio Tobia, a riscuotere un credito di dieci talenti d’argento contratto dieci anni prima. Durante il viaggio Raffaele indicò a Tobia la strada più sicura e lo salvò più di una volta, senza mai rivelarsi come angelo, se non alla fine della vicenda. Raffaele è rappresentato a sinistra mentre conduce per mano Tobia. L’angelo si è già rivelato mostrando le ali e Tobia lo guarda senza però sorpresa. Il giovane è abbigliato in maniera elegante, con un’acconciatura di capelli alla francese, con una veste corta, un mantello giallo al vento, calzoni rossi e alti stivali da viaggio. Come dal racconto biblico reca in mano il pesce che l’angelo gli ha fatto catturare nel Tigri salvandolo dal morso che l’animale stava per dargli al piede (con la bile del pesce il ragazzo guarirà la cecità del padre). Anche il cagnolino fa parte del racconto tradizionale, come compagno di Tobia, che volle seguirlo nel viaggio. La storia di questo quadro è molto triste perché il ragazzo in ginocchio in preghiera è probabilmente Raffaello figlio di Attaviano Doni (il committente dell’opera, abbiamo lo stemma della famiglia di ricchi mercanti di lana e tintori a sinistra), nato intorno al 1473 e morto adolescente nel 1487, anno in cui fu sepolto nella Badia fiorentina (il cui stemma è quello a destra). Forse a seguito del luttuoso avvenimento venne deciso lo spostamento della tavola dalla casa alla chiesa benedettina, quando furono aggiunti questi stemmi. Attaviano è abbigliato in modo severo e tuttavia secondo il gusto dell’epoca: la veste è lunga e accollata, come prescrivevano i moralisti, ma alla preziosa cintura pende una scarsella simile a quella che abbiamo vidi foggia simile a quella che abbiamo visto in mostra e i capelli hanno un taglio “alla franciosa”: moda d’abbigliamento che verrà anni dopo approvata dal Savonarola.

SESTA SALA

Nel Medioevo la società era organizzata secondo una precisa scala gerarchica che non poteva essere  sconvolta perché era, secondo la filosofia medievale, voluto da Dio per dare ordine al mondo. Tutti   avevano quindi un posto fisso che dovevano mantenere invariato per tutta la vita: chi nasceva contadino doveva rimanere tale, così come chi nasceva nobile eccetera. Naturalmente questa filosofia si faceva sentire ogni qual volta si parlava di abbigliamento, di presentazione esteriore di una persona, e ciò portò a numerosi problemi soprattutto a partire dal tardo Duecento, quando, grazie al maggior benessere dovuto alla maggiore circolazione delle ricchezze, un numero crescente di persone acquisì la possibilità di sfoggiare abiti e ornamenti preziosi. Tutto questo infatti rischiava di minare l’invalicabilità delle barriere fra i diversi gruppi sociali e contrastavano anche con il richiamo alla penitenza invocata dalla Chiesa, soprattutto attraverso i predicatori. La figura che risultava in questo senso più peccaminosa era la donna, da sempre si sa, abbastanza vanitosa. Dante, rimpiangendo la Firenze antica «in pace, sobria e pudica» esalta il fatto che la donna allora «non avea catenella, non corona […], non cintura che fosse a veder più che la persona».

Si ricorse contro tutto questo all’emanazione di precise leggi suntuarie per contenere il lusso, che non disciplinavano solo l’uso di vesti e ornamenti ma regolamentavano anche banchetti, nozze, battesimi e funerali. Per ovviare però al malcontento si decise, dal XIV secolo, di fare delle eccezioni: il lusso fu così concesso a cavalieri, ai dottori, ai medici, ai giudici e alle loro donne; fino ad arrivare alla possibilità di contravvenire alle norme dietro pagamento di multe che vennero accuratamente fissate per ogni genere di trasgressione, venendo così a beneficiarne le casse cittadine.

Jacopo del Sellaio “Banchetto di Assuero” (1490 ca) tempera su tavola – Galleria degli Uffizi, Firenze

Il dipinto di Jacopo del Sellaio ci descrive come solitamente si svolgevano i banchetti nei cortili, nelle logge e nei giardini dei palazzi dei ricchi fiorentini in occasione di feste importanti, in particolare matrimoni, e contro i quali si scagliarono le leggi suntuarie. Nel dipinto del Sellaio, sotto una pergola di uva la tavola è coperta da una raffinata tovaglia, forse di rensa, ed è imbandita con un servito composto da pezzi dorati o in ottone: bicchieri, piatti, coltelli e forchette a due rebbi (cioè due “punte”, molto rare a quest’epoca) per ciascuno, oltre a saliere e taglieri per condividere le pietanze. Mentre si susseguono le portate, il convito è allietato da musici. Alle spalle dei commensali, vi sono ricchi drappi. Di fatto i tessuti, così come l’apparecchiatura della tavola e le portate delle vivande, concorrevano all’opulenza dei banchetti. Il dipinto fa parte di una serie di cinque pannelli oggi divisi fra Firenze (questo, degli Uffizi), Parigi (Louvre) e Budapest (Szépmüvészeti Múzeum) che raccontano la storia di Ester, eroina biblica, seconda moglie di Serse I, re di Persia (vissuto tra il 485 e il 465 a.C.).

Dispendiosi non erano solamente le feste e i matrimoni, per i quali spesso ancor oggi si arriva ad indebitarsi e allora le leggi suntuarie erano volte anche a prevenire fallimenti di intere famiglie, ma anche i funerali facevano la loro parte. Quanto un funerale poteva essere costoso, ce ne da un assaggio proprio il Datini per il quale, nonostante le leggi suntuarie, furono sborsati circa 1000 fiorini. Quello della sepoltura e di un rito funebre adeguato era infatti un problema molto sentito e la solennità del rito, il numero di messe commemorative celebrate, l’utilizzo di arredi sontuosi erano tra le motivazioni che potevano spingere a iscriversi a una confraternita. Questo infatti non solo consentiva di sfuggire alle leggi suntuarie ma permetteva l’inumazione non nei cimiteri “collettivi” ma all’interno della chiesa di cui ciascuna confraternita usufruiva.

Niccolò di Pietro Gerini “Funerali di un confratello della Compagnia del Pellegrino” (inizio XIV sec.) tempera su tavola – Galleria dell’Accademia, Firenze

Questo, rappresentato da Niccolò di Pietro Gerini è il Funerale di un confratello della compagnia di Gesù Pellegrino di Firenze. I personaggi sono vestiti con la loro tipica veste bianca col grande cappuccio a coprire completamente il volto, addirittura non vi sono neanche i buchi per gli occhi, per aumentare la concentrazione del momento.

Beato Angelico “Morte della Vergine”, predella dell’Incoronazione della Vergine (1432 ca) tempera su tavola

Con questa predella del Beato Angelico, rappresentante le Esequie della Vergine, si ha un’idea in concreto di come poteva essere un funerale che contrastava con le leggi suntuarie: a partire dai tessuti preziosi, ma anche dalla presenza di ceri (per le leggi ne erano ammessi solo due, per un totale  di trenta libbre di cera al massimo). Solo i colori dei tessuti non corrispondono alla realtà del momento ma sono cari allo stile dell’Angelico, perlopiù rossi, azzurri e bianchi, luminosi e tenui. Diversamente nei funerali del Quattrocento imperavano i colori nero e bruno delle vesti e verde e azzurro scuro per i mantelli. La predella doveva far parte della tavola, dipinta anch’essa dall’Angelico, raffigurante l’Incoronazione della Vergine ora agli Uffizi, databile intorno agli anni 1432-1435. La pala originariamente era posta su un altare addossato al tramezzo della chiesa di Sant’Egidio, appartenente all’Ospedale di Santa Maria Nuova. Oggi si trova nel Museo di San Marco a Firenze.

Beato Angelico “Matrimonio della Vergine, predella dell’Incoronazione della Vergine

L’altra predella dell’Incoronazione dell’Angelico è quella raffigurante lo Sposalizio della Vergine. Sin da quando Giotto ha dipinto tale soggetto nella cappella degli Scrovegni a Padova, il rito matrimoniale è stata interpretato dagli artisti in termini moderni. L’artista fissa il momento più importante, quello dello scambio dell’anello. Nel rituale quattrocentesco, che si svolgeva davanti o dentro la casa della donna, al cospetto di amici e parenti, il notaio (o al suo posto il padre della sposa) prendeva con la sinistra la destra della ragazza e la metteva nelle mani dello sposo; questi le infilava l’anello nell’anulare o nell’indice (non è sicuro) e poi riceveva il proprio e se lo infilava al dito. Durante la celebrazione era poi uso popolare che gli amici battessero sulle sue spalle dello sposo la mano, quale segno dell’abbandono del celibato. La musica scandiva i vari momenti delle nozze, dal matrimonio vero e proprio, rappresentato nel dipinto dell’Angelico, fino al trasferimento della sposa nella casa dello sposo.

Tra le cose che erano proibite dalle leggi suntuarie c’erano sicuramente le ricche acconciature. Le normative suntuarie prevedevano di non portare in testa più di 6 once di perle, così come si proibisce di portare più di una collana per volta. Condizione molto diversa quelle che troviamo dall’osservazione della ritrattistica degli stessi anni. Per esempio Maso da Finiguerra, nei suoi meravigliosi disegni, ritrae più volte personaggi della nobiltà con acconciature estremamente preziose ed eccentriche. In mostra è presente il ritratto di una nobildonna la cui acconciatura, ricchisssima di perle e pietre preziose, culmina con una serie interminabile di penne di pavone che se da un lato significa vanità, dall’altra, nell’iconografia cristiana, simboleggiano la resurrezione e la vita ma anche la perfetta conoscenza di Dio.

Continua…

 

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