Archivio mensile:Febbraio 2012

In arrivo bella notizia per San Valentino: L’amore è eterno, non solo finché dura…

Può davvero esistere un amore eterno, che dura a dispetto del tempo e dello spazio, a dispetto addirittura della morte e dell’oblio?

Sarcofago degli sposi

Beh guardando i due sposini etruschi distesi sul loro letto/sarcofago, ritrovato a Cerveteri e conservato oggi al Museo di Villa Giulia a Roma, si direbbe proprio di sì. Già la stessa idea del tempo si perde guardandoli e pensando che ci arrivano dal VI secolo a.C. Ogni cosa ci parla del loro amore, in particolare i gesti affettuosi, che rivelano sicuramente anche un reciproco rispetto. Non esistono infatti gerarchie di sorta fra l’uomo e la donna ma sono sullo stesso piano. Del resto il ruolo della donna nella civiltà etrusca era assolutamente paritario all’uomo, a differenza invece di quanto fu per la civiltà greca e romana.

Il marito così appoggia dolcemente la mano sulla spalla della donna mentre, sorridendo, brindano al loro amore. Un tempo infatti, le loro mani dovevano reggere coppe e patere, piatti questi ultimi ampi e poco profondi, usati nell’antichità appunto per bere. Un’altra bella coppia, simile a questa di Villa Giulia, si trova al Museo del Louvre, solo che quelli non stanno bevendo ma dandosi il profumo sui polsi a vicenda. Con i nostri sposi invece ci ritroviamo immersi improvvisamente all’interno di una scena di festa e si tratta, niente meno, che del loro banchetto funebre. Per gli etruschi la morte era una cosa da festeggiare, il raggiungimento di una totale beatitudine, come si percepisce dai due volti così sereni, dopo gli affanni della vita. Era una fase nella quale non si abbandonava niente ma anzi venivano intensificati i momenti felici. Così le raffigurazioni dell’uomo dopo la morte dovevano rappresentare sostanzialmente delle prosecuzioni di ciò che di bello si fa nella vita quotidiana, come mangiare.

Ed anche il nutrimento, nella civiltà etrusca, non era semplicemente un’azione volta al sostentamento, ma una sorta di rituale, un momento sacro che andava consumato lentamente, magari meditando davanti a musici, danzatori e addirittura gare ginniche che facevano da contorno al tutto. Che differenza con i pasti dell’uomo di oggi, sempre così di corsa e che spesso si ritrova ignaro anche di cosa ha ingurgitato cinque minuti prima!

Tutto è estremamente sfarzoso a partire dai colori, in alcune parti ancor oggi conservati, che rivestivano completamente i corpi della coppia in terracotta. Già in epoca romana la raffinatezza, il buongusto e l’amore per le cose lussuose erano tutte caratteristiche riconducibili alla civiltà etrusca. Si arrivò addirittura a sostenere che gli etruschi si fossero estinti perché pensavano soltanto a tre cose: mangiare, bere e fare l’amore. Ci si scandalizzava anche del fatto che mangiassero due volte al giorno, da qui l’appellativo infamante di “gastriduloi”: schiavi del ventre, tanto che era popolare l’immagine dell’etrusco obeso.

Anche il cibarsi, riccamente adorrnati, non attorno ad un tavolo ma semidistesi sul “triclinio” cioè, tre letti a forma di T, da qui il nome, (un lato era lasciato libero per permettere il passaggio di coloro che servivano) è certo sinonimo di essere amanti del piacere e dell’agio. I nostri due sposi ci mostrano anche delle raffinate coperte ed un morbido cuscino, dai quali spuntano ricami ad onde. L’uso del triclinio per mangiare fu continuato e particolarmente amato anche dai romani. Certo, come in ogni epoca, la tavola dei poveri era molto più frugale di quella dei ricchi.

E cosa staranno bevendo così soddisfatti? Naturalmente del vino.

Molti reperti archeologici risalenti alla civiltà etrusca testimoniano del largo uso di questa bevanda in occasione di cerimonie e banchetti. Il vino rappresentava comunque l’elemento integrante della dieta mediterranea, anche perché molto energetico. Quando gli etruschi arrivarono nella penisola italiana (secondo la tradizione, tramandataci dallo storico greco Erodoto, provenivano dalla Lidia, cioè l’attuale Turchia anatolica meridionale), trovarono una terra adattissima alla coltivazione della vite, tanto che fu chiamata Enotria, cioè la terra del vino. Nelle tombe del Chianti sono stati ritrovati semi di vite che rivelano la loro provenienza dall’oriente. Gli etruschi usavano la “vite maritata”, cioè accoppiata, appoggiandola ad una pianta di olmo, affinché potesse crescere più forte, circondandola poi di siepi per essere protetta dagli animali.

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Nicola de Maria al Museo Pecci di Prato protratta fino alla fine di marzo: a spasso tra i colori

Oggi andiamo a spasso tra i colori incredibili di Nicola De Maria, passando da una sala all’alltra del Museo Pecci a Prato.

L’arte di De Maria dialoga profondamente con l’ambiente che la contiene e molto spesso, in una sorta di esplosione sentimentale, le forme fuoriescono letteralmente dai limiti delle tele e, come dischi volanti, volano nello spazio, sulle nostre teste.

 

Rimaniamo un attimo rapiti, nella seconda sala, dall’ “Universo senza bombe”, titolo scritto in fondo all’opera in lettere che, come note musicali, si muovono all’interno di un pentagramma. Una natura incantata invade uno spazio che emana pace e gioia, un sogno, una sorta di preghiera per una possibile alternativa alle bruttezze del mondo reale: questo quello che l’arte di De Maria vuole essere. “Con i miei lavori vorrei cancellare la povertà, la malattia, l’ignoranza e la violenza. Dovrebbero essere così belli e splendenti da raggiungere questo fine. Se no, un pittore cosa ci sta a fare?”

I colori danno idea sempre di grande freschezza, soprattutto i suoi bellissimi paesaggi: montagne, colline, zone erbose che svelano a tratti nascosti misteriosi animali, tutto realizzato esclusivamente con il colore.

Al contrario di quanto ci potremmo immaginare queste opere, realizzate su cassette, quindi materiali di recupero, hanno un procedimento esecutivo estremamente lento, meditativo. L’artista cioè da un colore alla volta e lo lascia riposare, calmare, sulla superficie, prima di intervenire nuovamente. E’ proprio questo modo di lavorare le superfici che non provoca il cracklé, cioè quella naturale fessurizzazione del colore, quando si da molto corposo in un punto: non c’è dramma nemmeno fisico nelle opere di De Maria.

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