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Se non lo capisco non mi piace: imparare a vedere l’arte

Molte persone che vengono a visitare musei di arte moderna o contemporanea esordiscono con questa frase: “questo lo saprei fare anche io!” oppure vogliono sapere a tutti i costi il significato dell’opera che vedono. E se la risposta non li soddisfa pienamente si innervosisce o continua con: “io queste cose proprio non le capisco”.

L’artista Margherita Manzelli, che espone al Centro per le Arti Contemporanee Luigi Pecci di Prato fino all’11 maggio 2025, ha detto una cosa molto significativa in una sua intervista: “Non credo in tutti i discorsi intorno alle opere d’arte: spiegare tutto a tutti i costi può essere dannoso”. Noi vogliamo sempre spiegare tutto, etichettare le cose, dare un nome a tutto ma ci sono cose che vanno aldilà dell’espressione verbale, aldilà di un significato univoco, di una definizione. Tra queste cose vi è l’arte. Chi vorrebbe mai spiegare un brano musicale, per esempio di Beethoven? Lo si vive e basta, con tutte le emozioni diverse che a ognuno di noi suscita. Eppure in arte si pretende di capire, a tutti i costi, per arrivare invece ad ottenere di inserire inevitabilmente il freno a mano alla nostra libertà di percezione, di sentire con il corpo, con i sensi, con la propria storia emotiva. Fare esperienza di pratiche artistiche ed espressive al museo è stimolante e arricchente per tutti perché, quando le persone si rendono conto del potere di tutto questo processo che possiamo vivere insieme intorno alla libera espressione dell’artista come di sé stessi, allora veramente si impara anche a vedere, a percepire. Si impara a utilizzare l’arte per il suo vero e fondamentale ruolo che nella vita di tutti noi può avere, nessuno escluso: quello di stimolare l’immaginazione, la riflessione, la memoria, la creatività personale, la propria unicità. Non ha importanza se una cosa piace o non piace, un’opera d’arte non deve piacere a tutti e, dico di più, non deve per forza piacere. Chi fa arte per piacere agli altri quello che ottiene è solo frustrazione e inconsistenza. L’arte esiste perché esistiamo noi, esseri umani bisognosi di comunicare e mettersi in relazione con noi stessi e con il mondo che ci circonda. C’è stato un periodo in cui tutti noi lo sapevamo bene. C’è chi ancora ha la fortuna di sperimentarlo tutti i giorni e ce lo possono ricordare: i bambini.

Dipingere il vuoto

“Dipingere il vuoto” è utilizzare la pittura come strumento di elaborazione del lutto. Si tratta di un progetto che ho iniziato in un periodo molto difficile della mia vita. La malattia di mio padre mi ha costretta ad intraprendere un viaggio dentro di me per trovare la mia forza, le mie risorse, la mia resilienza.

Dipingere il vuoto è un urlo, uno scrollarsi di dosso tutto, ma è anche un abbraccio, un accogliere quel vuoto dopo averci combattuto, dopo averlo rifiutato, odiato, rifuggito. E’ un riappropriarsi della pittura e grazie a questa ritrovarsi.

Tre colori, un cambiamento di tono, un’apparizione: sì perché se lo ascolti quel vuoto lui non è mai così vuoto, c’è sempre qualcosa che affiora, che ti chiama, che ti scrolla dal torpore. E’ come quando chiudi gli occhi: in un primo momento pensi che vedrai solo buio ma poi arrivano bagliori, puntini colorati, ricordi di forme e luci che hai visto poco prima. Dipingere il vuoto è trovare la forza di andare avanti. Quel che non c’è più è il vuoto con cui devi imparare a convivere per il resto della vita nonostante il rifiuto, la voglia matta di tornare indietro nel tempo per riassaporare la presenza. Quel vuoto è l’assenza che aleggia nella casa di mio padre, nel suo studio, nel suo giardino di rose. Il vuoto è la mia impossibilità a tornarci e l’attesa che presto non ci sarà più nemmeno quella casa, quei luoghi amati, quei muri dipinti, quei profumi.

Allora che fare con questo vuoto? Come fare in modo che non inghiottisca? Non ci sono risposte giuste o sbagliate, non esistono ricette segrete da fare proprie, né formule che rivelano verità. E’ un viaggio, un percorso, un tempo da trascorrere e in questo tempo ascoltare e accogliere quel che viene. Perché il vuoto è come un foglio, bianco, da ascoltare, da accogliere, da accettare e poi.. trasformare.

… E l’Arte poi l’ho abbandonata…

Quando si fa Arteterapia con i gruppi emergono tante riflessioni che mettono in moto emozioni e ricordi. A volte sono ricordi spiacevoli di inadeguatezza e frustrazione. Una signora ha raccontato che ha sempre pensato di non essere per nulla brava a fare niente che possa essere associabile a qualcosa di artistico o creativo. “Eppure adesso che ho preso semplicemente a muovere le mani liberamente, mi sono ricordata che c’è stato un momento in cui credevo di essere brava a disegnare ma a scuola mi sono resa conto via via che non era per me l’arte”. Portando al gruppo un sentimento che accomuna molti di noi. Un sentimento che ha origini da bambini, tra i banchi di scuola quando un giudizio può soffocare la creatività e annientare idee e voglia di fare. “E poi l’Arte l’ho abbandonata….”

Eppure l’arte è sperimentazione e il vero fallimento è solo il sentirsi di aver fallito. Dal fallimento, da quello che non ci piace possono nascere tante cose, come semi di tante piantine che se ti stanchi di dar loro acqua moriranno per forza. Eppure nell’arte il giudizio degli altri pesa moltissimo e proprio nell’arte tutti si sentono in diritto di criticare, i più sicuri di sé sembrano tutti grandi artisti, grandi critici d’arte, grandi esteti che sanno cosa è bello e cosa invece è brutto. E allora la maggior parte di noi ha dato retta a quei giudizi (che nell’arte comunque sono sempre soggettivi) e hanno dimenticato col tempo cosa sia creare con le proprie mani, cosa vuol dire fregarsene di piacere agli altri e lasciarsi andare al solo gusto di esprimere sé stessi, liberi di scoprire e scoprirsi senza paletti, senza dover per forza colorare dentro i contorni, senza il dover per forza usare i colori “giusti”, senza il dover per forza rispettare canoni imposti dagli altri.

Ognuno di noi, nessuno escluso, ha bisogno di riconnettersi a quella parte creativa e artistica che è dentro di noi e che è innata e libera da contaminazioni di giudizio esterno. Basta vedere i bambini in tenera età che non hanno certo paura di un foglio bianco o di sporcarsi di colori.

L’arte è libertà e per farla non bisogna essere artisti affermati, anzi coloro che sono completamente liberi da infrastrutture imposte o autoimposte, proprio come i bambini piccoli, sono coloro che possono arrivare a scoperte inaspettate e meravigliose.

Cito una frase di uno dei ragazzi che con me fanno Arteterapia da ormai diversi anni: “Io non so cosa differenzi veramente un artista da uno che non lo è ma che semplicemente dipinge, disegna, crea. Non so se io sono o sarò mai considerato un artista ma la cosa bella è che non mi interessa. Forse finché dipingi per piacere agli altri di certo non lo sarai mai. Quello che mi interessa è che solo che con l’arte posso esprimermi e stare bene, e capire me stesso, e fare uscire quello che al contrario rimarrebbe soffocato nel mio cuore. Quello che mi interessa è quel momento di me, in connessione con me, in relazione con il mondo, il mio”.