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Bonafede Art Lab

“Bonafede Art Lab” è un progetto che partirà nel mese di maggio 2025 presso l’Atelier di via Fra Bartolomeo 54 B a Prato.

Il progetto è dedicato alla memoria di mio padre, un grande artista, pittore, ceramista, scultore, designer, restauratore. Un artista artigiano di altri tempi, poliedrico e sperimentatore insaziabile. Mi ha insegnato il valore delle mani e delle loro possibilità infinite di espressione e relazione con il mondo. Mio padre si chiama Luciano Nardini in arte Bonafede. A Prato è conosciuto per aver costruito dal niente proprio con le sue mani e portato avanti per tanti anni il Mambo Pub di via Santa Trinita 33, poi cambiato il nome in Hook e poi Birimbao. Sempre mio padre lo ha plasmato nel tempo ricostruendolo e ricostruendosi tutte le volte. Dentro questi locali mio padre non solo curava e accoglieva le persone con la sua straordinaria simpatia e il suo carisma ma dentro vi aveva costruito tutto lui, con quelle sue mani magiche: il bancone, i pavimenti, le sedie, i tavoli, tutti i particolari. Non c’era un mestiere che non sapeva fare ed era anche uno straordinario pizzaiolo.

Ma chi è Bonafede artista? Ecco la sua biografia in breve:

Luciano Nardini, in arte Bonafede, nasce a Firenze il 28 agosto del 1953.
Il 1966 è l’anno dell’alluvione di Firenze e Nardini ha 13 anni quando si unisce come volontario nel recupero di manoscritti e opere alluvionate delle Chiese. 
Si discosta dal sistema scolastico repressivo dell’epoca e inizia a lavorare giovanissimo all’interno delle botteghe artigiane fiorentine. Impara a lavorare molteplici materiali: dal vetro, al ferro, al marmo, alla terracotta. Si dedica con passione anche all’arte del restauro di affreschi e dipinti murari nelle ville fiorentine. 
All’età di 16 anni, affascinato dalle botteghe artigiane fiorentine, inizia a lavorare come ragazzo di bottega. Severi nell’insegnamento, i vecchi artigiani gli trasmettono il potente significato della manualità delle opere. Da apprendista e poi artigiano, si inserisce negli ambienti artistici dell’epoca. Nel 1968 era facile fare amicizia a Firenze. Con artisti di varie correnti, come macchiaioli, futuristi, impressionisti, cubisti… Ci si riuniva nelle topaie dei vignaioli a disquisire. Nonostante le divergenze e rivalità sull’arte e le tecniche, le serate finivano in allegria.
Dopo aver lavorato una grande molteplicità di materiali: dal ferro, legno al vetro alla ceramica, l’artista inizia importanti lavori di restauro ad affreschi all’interno delle ville ottocentesche. Tra i lavori di restauro realizza il recupero di bassorilievi in pietra serena sui bordi delle facciate come teste di leone, grottesche, maschere che, come misteriose sentinelle, impedivano il malefizio nelle abitazioni.
Nel 1986 si dedica a dipingere grandi opere, olio su tela, e sculture. Inizia allo stesso tempo una produzione di design in ceramica di grande raffinatezza: lampade, vasi, oggetti di arredamento artistico. Questo percorso di ricerca insaziabile sulla resa della forma nello spazio, lo porterà a elaborare un’originale pittura su ceramica, estremamente complessa nella resa cromatica e grafica delle figure. Sono le “Icone”, lastre ceramiche in terracotta con forme femminili, che sembrano muoversi nello spazio, sinuose e misteriose, e che incantano chi le osserva con il loro enigmatico sguardo. Sono pezzi unici e speciali proprio per le difficoltà legate alla loro realizzazione cromatica, soprattutto in fase di cottura. Le opere si possono rompere o deformare, esse si trasformano costantemente nei vari passaggi di realizzazione, richiedendo in ogni fase della loro vita uno studio attento e paziente dei pigmenti e degli smalti da usare. Una sapienza di antico artigiano pittore che ha il sapore di magica e lenta metamorfosi, che dà ad ogni opera una vita tutta sua, unica e irripetibile che è il frutto di un lungo e instancabile processo di indagine della materia.

Arte prima e dopo la nascita

L’esperienza artistica è un’importante forma di benessere e relazione. L’arte è come un ponte capace di unire, un canale di comunicazione potente e stimolante, che permette di connettere le persone aldilà delle parole perché rende tutto il corpo e i nostri sensi i veri protagonisti. Anche solo attraverso la stimolazione visiva e sensoriale entriamo, in maniera naturale e immediata, all’interno di quello che è il processo creativo, rompiamo schemi, ci connettiamo ai nostri ricordi, abbattiamo pregiudizi, entriamo in contatto con altri punti di vista, immaginiamo, visualizziamo. Viviamo in un’epoca in cui non siamo più abituati a immaginare, in cui siamo immersi in tanti tipi di inquinamento, uno di questi è quello visivo. Siamo sommersi dalle immagini, di ogni tipo, dai social, alla pubblicità, oggi tutto è immagine ed è un paradosso non saper più immaginare e vedere. È anche un’epoca in cui non siamo più abituati a sentire il nostro corpo e siamo inconsapevoli delle sue straordinarie capacità e risorse espressive e motorie.

Nel momento in cui diventiamo genitori ci troviamo a ripensare al nostro corpo e alle sue capacità espressive, soprattutto noi donne che abbiamo a che fare, fin dall’inizio in cui capiamo di essere incinte, con importanti cambiamenti e trasformazioni profonde, sia a livello fisico che emotivo e psicologico. L’esperienza della gravidanza è già una prima forma di processo creativo a cui andiamo incontro. E come tutti i processi creativi ci stimola a immaginare, a sognare, a progettare, a richiamare la parte bambina di noi che era rimasta sopita dal tram tram quotidiano. Il processo artistico e il processo generativo sono molto simili e condividono la stessa apertura all’ignoto, alla scoperta, all’esplorazione di sé e dell’altro, la stessa voglia di mettersi in gioco e provare tante strade finora impensabili.

Il metodo vuole dare valore a tutto questo perché non passi inosservato, come una delle tante fasi della vita. L’obiettivo è proprio rendere questa fase formativa, perché essere creativi, immaginare, vedere, sognare, divertirsi, è la base per ogni successo anche come genitori da sfruttare nel corso della vita insieme ai nostri figli.

Dipingere il vuoto

“Dipingere il vuoto” è utilizzare la pittura come strumento di elaborazione del lutto. Si tratta di un progetto che ho iniziato in un periodo molto difficile della mia vita. La malattia di mio padre mi ha costretta ad intraprendere un viaggio dentro di me per trovare la mia forza, le mie risorse, la mia resilienza.

Dipingere il vuoto è un urlo, uno scrollarsi di dosso tutto, ma è anche un abbraccio, un accogliere quel vuoto dopo averci combattuto, dopo averlo rifiutato, odiato, rifuggito. E’ un riappropriarsi della pittura e grazie a questa ritrovarsi.

Tre colori, un cambiamento di tono, un’apparizione: sì perché se lo ascolti quel vuoto lui non è mai così vuoto, c’è sempre qualcosa che affiora, che ti chiama, che ti scrolla dal torpore. E’ come quando chiudi gli occhi: in un primo momento pensi che vedrai solo buio ma poi arrivano bagliori, puntini colorati, ricordi di forme e luci che hai visto poco prima. Dipingere il vuoto è trovare la forza di andare avanti. Quel che non c’è più è il vuoto con cui devi imparare a convivere per il resto della vita nonostante il rifiuto, la voglia matta di tornare indietro nel tempo per riassaporare la presenza. Quel vuoto è l’assenza che aleggia nella casa di mio padre, nel suo studio, nel suo giardino di rose. Il vuoto è la mia impossibilità a tornarci e l’attesa che presto non ci sarà più nemmeno quella casa, quei luoghi amati, quei muri dipinti, quei profumi.

Allora che fare con questo vuoto? Come fare in modo che non inghiottisca? Non ci sono risposte giuste o sbagliate, non esistono ricette segrete da fare proprie, né formule che rivelano verità. E’ un viaggio, un percorso, un tempo da trascorrere e in questo tempo ascoltare e accogliere quel che viene. Perché il vuoto è come un foglio, bianco, da ascoltare, da accogliere, da accettare e poi.. trasformare.